Lo stadio Ballarin, l’eterna Fossa dei Leoni

Ho vissuto solo gli ultimi 7 anni del Ballarin, ma sono valsi quelli finora passati al Riviera, perché un campionato in quel catino, intitolato ai fratelli Aldo e Dino di Chioggia, calciatori resi immortali dalla tragedia di Superga del grande Torino, ne equivaleva ad almeno 5 trascorsi altrove. E sì perché nell’impianto che per più di 50 anni (dal 1931 al 1985) ha esaltato la Samb e San Benedetto del Tronto, popolato da tre generazioni di tifosi, alle partite non si assisteva, ma si partecipava attivamente, se non quasi si giocava. E si contribuiva in modo determinante al risultato finale, spesso benevolo per i nostri colori.

Una volta superato in apnea il pontino lungo e attraversati i cancelli a fianco al botteghino, con tanto di sosta al barretto per qualche Borghetti o una manciata di semetti e lupini, ecco che si oltrepassava un gateway, tipo Alice in Wonderland, perché da quell’istante fino al triplice fischio finale e anche oltre il mondo esterno non esisteva veramente più e ci si calava nella dimensione delimitata da tribuna, distinti e due curve, di cui in particolare la Sud rappresentava una sorta di invalicabile scudo magnetico verso il resto della città. Bella e tragica quella curva, muro urlante, colorato, spesso mobile con i tentativi di forzare la rete e proteso verso il cielo con gli immancabili fumogeni.

E poi io al Ballarin non mi sono mai seduto, sempre aggrappato alla rete della tribuna, perché giammai ci si doveva sedere, mica si andava al cinema! Ed ecco allora la galleria dei personaggi che seguivano la palla, che si inerpicavano sulla rete, che cercavano di eludere la sputacchiera con prodigiose palombelle, che attaccavano le gambe del malcapitato guardalinee (anzi “segnalino” come molti lo apostrofavano) con quella spada in cui si tramutava l’ombrello, che addirittura (questo, che ricordo io, capitò una sola volta però quando l’ex Ascoli Renna allenava il Catania) scavalcavano per appostarsi sul tettuccio della panchina avversaria (non era certo un’impresa da acrobati arrivarci…). E poi c’era l’immancabile Gustavo Travaglini, eroe del Ballarin prima come calciatore e poi come tifosissimo e mio spesso vicino compagno nei pressi della rete.

Quella recinzione che mi preservò quando vidi Joe Jordan, gigantesco ma non proprio eccelso centravanti di quel Milan che nel 1982/83 dovette accontentarsi di due pareggi contro di noi, piombare verso di me, praticamente schiacciato per tutta la partita dal pienone di quella domenica. Quella stessa rete che salii quando vidi il mio calciatore del cuore Giuliano Fiorini accorrere proprio dove ero io dopo aver siglato il gol-vittoria contro il Cagliari, per abbracciarlo e riceverlo il regalo più bello nel giorno della mia cresima. E poi al termine dell’ultima giornata casalinga ecco la tradizionale invasione di campo, che ci portava laddove eravamo comunque metaforicamente stati per tutta la stagione, strappando qualche zolla e ciuffo d’erba pienamente guadagnati e meritati per tutti gli sforzi profusi nel corso dell’annata.

Quanti momenti, quante imprese, quanti sguardi, come quello rivolto da Zenga alla curva pochi attimi prima della tragedia, che ora perderanno in un certo senso la loro fisicità per essere consegnati unicamente ad immagini e ricordi. Te ne vai amata fossa dei leoni, ma parafrasando Foscolo resterà per sempre dentro di noi “il tuo spirto guerrier ch’entro ci rugge”.

Alessio Perotti

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